Liberi e uguali anche nell’accoglienza. Con gli stessi diretti e doveri di un cittadino appartenente a questa comunità. Purtroppo non è cosi a Roma. In una condizione di vulnerabilità lavorativa, abitativa, con una storia di migrazione non si è sempre liberi di scegliere e non si è uguali. Le persone più fragili nella capitale non vengono accolte, vengono abbandonate a loro stesse. A Roma l’accoglienza ha fallito. Secondo un rapporto di In migrazione, infatti, sono circa 786 i rifugiati abbandonati a loro stessi, in attesa che si liberi un posto, e nel frattempo finiscono per strada.
Una situazione gravissima che è sotto gli occhi di tutti. Basta girare per la città per vedere richiedenti asilo e rifugiati sopravvivere in giacigli di fortuna, dormire nei parchi e nelle strade in una situazione di totale abbandono e degrado. Una nuova emergenza sociale a cui il Comune sta contribuendo e non poco. Un’emergenza sociale il cui prezzo non lo pagano soltanto i profughi, ma tutta la città. Per i migranti, invece, questo sistema rappresenta una zona di indeterminatezza e sospensione dove vivono per mesi. Il destino dei richiedenti asilo è affidato molto spesso al caso: si può finire in un Cara o in uno Sprar, oppure ancora in una delle strutture gestite da cooperative affidatarie di progetti. Queste persone si spostano e sono spostate di continuo. Le loro traiettorie sono casuali e la delocalizzazione è infinita. È un altro effetto dello status giuridico indeterminato in cui vivono.
I “sospesi” sopravvivono in insediamenti informali, in una sorta di urbanistica del disprezzo: come a Ponte Mammolo, sgomberato nel 2015, come nello stabile di Via Vannina, sgomberato a Giugno o come a piazzale Maslax. A Via Cupa, vicino al Verano, c’era un centro di accoglienza gestito da volontari dell’associazione Baobab. Era un centro che funzionava fino alla chiusura dei locali nel dicembre di due anni fa. Dopo decine di sgomberi, e grazie alle tende donate dalla cittadinanza, il Baobab è ora un presidio mobile, gestito da volontari dove vengono accolte sull’asfalto circa 400 persone in meno di un anno. Dal 2010 si contano moltissimi casi di occupazioni a scopo abitativo, come ad esempio il Salam Palace o edifici in via Collatina. Si può transitare per anni da una realtà all’altra e restare richiedente asilo in attesa dello status giuridico.
A Roma, la domanda di accoglienza è doppia rispetto all’offerta. Questo, ovviamente, ha creato una lista d’attesa cronica: sono circa 6 i mesi necessari per accedere alle strutture, un tempo pari a quello concesso per la permanenza. L’emergenza nella capitale, non è dunque solo legata agli arrivi, ma a disfunzioni sistemiche. Un sistema d’accoglienza così, indegna, ricade su tutti i più vulnerabili.
È necessario uscire dall’ossessione dell’emergenza e dell’accoglienza così come l’abbiamo conosciuta sino a oggi: un modello caratterizzato da puro assistenzialismo. Ci dobbiamo aprire a nuovi modelli che prendano le migliori idee e le migliori risorse dell’accoglienza “informale”. Un sistema che ha animato migliaia di cittadini in questi ultimi anni, e al cui centro c’è la persona, la sua storia, il suo viaggio e le sue speranze.